Articoli

GRAMSCI NELL'ENCICLOPEDIA ITALIANA

Giuseppe Vacca, voce Gramsci, Antonio in Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto della Enciclopedia italiana, 2002, vol.58, pp.412-430

GRAMSCI NELL'ENCICLOPEDIA ITALIANA

Di Guido Liguori

La voce Gramsci, Antonio del Dizionario biografico degli italiani edito dall’Istituto della Enciclopedia Italiana (vol. 58, Roma, 2002, pp. 412-430), riprodotta anche in elegante pubblicazione a sé (un estratto fuori commercio), è stata redatta da Giuseppe Vacca. Vale la pena soffermarcisi, pur trattandosi solamente di una ventina pagine, anche se molto fitte, sia per la sede prestigiosa - l’importante pubblicazione dell’Istituto fondato da Giovanni Treccani -, sia per l’impegno che l’autore ha profuso nel delineare un ritratto

che può dirsi «biografico» solo in una accezione molto ampia. Vacca infatti non si è limitato a ricostruire gli «eventi», personali, familiari e politici, che hanno costellato la vita di Gramsci, ma ha dedicato ancora più energie a ricostruirne e a descriverne la «biografia intellettuale», riservando inoltre non poche tra le pagine finali a una impegnata interpretazione complessiva dei Quaderni. È ovvio che il livello dell’ambizione contrasta non poco con lo spazio a disposizione, tanto che la sinteticità di alcuni passaggi diviene quasi ellitticità, forse a volte incomprensibile per il lettore alle prime armi (e questo appare un difetto per la voce di un Dizionario biografico). Tuttavia, chi sia un poco addentro allo studio di Gramsci e ai problemi che pone il suo lascito letterario, non può non scorgere nello scritto di Vacca il tentativo in gran parte riuscito di disegnare la vita e il pensiero del comunista sardo con attenzione e impegno, in genere con equilibrio. La parte forse più ardua, e anche discutibile [cfr. anche il relativo convegno dell’Enciclopedia Italiana, in questo sito, nella rubrica Eventi gramsciani], dove maggiore si avverte il tentativo di presentare gli esiti di una ricerca che, pur durando da oltre un decennio, forse è ancora in progress, è quella finale sui Quaderni, che discuteremo brevemente. Va da sé che molti altri punti sono o possono essere suscettibili di obiezioni o controdeduzioni. Ma questo è proprio dovuto al fatto che si è di fronte a una voce «d’autore», a una «interpretazione», sia pure evidentemente temperata dalla sede di pubblicazione.
Sul versante più propriamente storico-biografico, nello scritto di Vacca sorprende inizialmente la pressoché totale mancanza di riferimenti all’infanzia e alla giovinezza trascorse da Gramsci in Sardegna: dopo neanche venti righe il Nostro è già a Torino (dove in realtà arrivò a vent’anni). Manca qualsiasi riferimento alle disagiate condizioni economiche in cui crebbe, all’arresto del padre, all’infermità fisica di cui soffrì fin da bambino, nonché all’ideologia sardista e antiprotezionistica che ne colorò la prima formazione culturale e politica. Sono passaggi importanti, anche se oramai acquisiti, sacrificati evidentemente alle ristrettezze di spazio. Ugualmente scarsi sono i cenni a un certo versante della formazione intellettuale di Gramsci, quello legato all’ambiente antipositivistico dell’Italia del primo Novecento (dal neoidealismo alla Voce, da Salvemini a Bergson, Sorel e il pragmatismo). A questo proposito Vacca - in coerenza con una sua lettura che risale agli anni settanta - preferisce privilegiare un altro elemento, del resto innegabile e fondamentale: l’incontro con la Rivoluzione russa e il pensiero di Lenin. È soprattutto l’elaborazione gramsciana tra il ’17 e il ’21 ad essere sottolineata, evidenziando le peculiarità del «consiliarismo» di Gramsci, ruotante intorno alla considerazione della classe operaia quale «unica forza sociale in grado di salvare il mondo dalla catastrofe generata dalla guerra e di indicare una prospettiva, nazionalmente, alla dissoluzione dello Stato»: già da allora, secondo Vacca, il proletariato era per Gramsci «la sola classe nazionale». Dopo Livorno e gli anni del «primo periodo» di vita del Pcd’I, e dopo il fondamentale soggiorno moscovita, inizia nel 1923-1924, la «”ricognizione nazionale” delle condizioni della rivoluzione proletaria» e la ricerca sulle differenze tra «Oriente» e «Occidente» (cfr. la lettera a Togliatti e Terracini del 9 febbraio 1924). L’autore dà giustamente spazio e importanza al carteggio per la formazione del nuovo gruppo dirigente comunista italiano, sottolinea come si connettano fin da questi anni lotta al fascismo, «funzione nazionale» e questione meridionale. Chiarendo bene come, se Gramsci parla di «lotta per la democrazia» in relazione alla fase aventiniana, essa sia ancora tutta iscritta «in una prospettiva rivoluzionaria, volta, cioè, a creare le condizioni della “dittatura del proletariato”».
Il 1926 è - come è noto - l’anno cruciale della biografia di Gramsci, e non solo per l’arresto, avvenuto in novembre. Il 1926 si apre con il Congresso di Lione e con le importanti Tesi, su cui Vacca si sofferma. Gramsci giunge alla convinzione che ci si trova dinnanzi a una stagione forse nuova, di riapertura di una speranza rivoluzionaria, di fine della «stabilizzazione relativa» del capitalismo, che poneva il problema - scrive Vacca - «di saldare lotta al fascismo e lotta al capitalismo». L’autore evidenzia efficacemente alcuni limiti della politica dei comunisti italiani del tempo, un certo «settarismo» che coltivava l’illusione di potersi alleare con altre forze di sinistra contro il fascismo lavorando al tempo stesso al loro «smascheramento» di fronte alle masse. Nelle Tesi di Lione, un testo pur così ricco e importante, ancora si propongono - mentre il fascismo sta per trasformarsi in regime - parole d’ordine come «controllo operaio sull’industria» o «la terra ai contadini»!
Si arriva così al celebre scambio epistolare del ’26: il contrasto con Togliatti e con Stalin-Bucharin - spiega Vacca - non attiene semplicemente al problema della democrazia interna al partito bolscevico, ma è politico in senso più generale, riguarda il dissenso sulla «linea del “socialismo in un paese solo”», in relazione al modo di intendere la «stabilizzazione relativa». La stalinizzazione che a partire dagli anni seguenti investì il movimento comunista è, per Vacca, anch’essa (insieme alla sconfitta subita ad opera del fascismo) alla base della riflessione del carcere. I Quaderni, dunque, «vennero concepiti per proseguire, nel campo del pensiero, la lotta politica a cui [Gramsci] non poteva più partecipare immediatamente». Da qui le critiche di «cesarismo» e di scarsa capacità espansiva rivolte all’Urss.
Si entra in questo modo nella parte meno scontata e più controversa della ricostruzione di Vacca. Da un lato egli scrive esplicitamente che «la rielaborazione [compiuta da Gramsci in carcere] delle categorie analitiche e strategiche mira a riformulare i problemi della “rivoluzione mondiale”, non certo a rinunciarvi»: affermazione netta, che sembrerebbe dissipare molti equivoci (tenendo certo presente che Gramsci in carcere ridefinisce completamente il concetto di rivoluzione sulla base della distinzione «Oriente»-«Occidente»). Dall’altra, però, Vacca pone alcune affermazioni che necessiterebbero di discussione profonda e che appaiono non scontate, a volte non convincenti. Ad esempio, come si giustifica l’affermazione secondo cui «queste critiche [all’Urss] implicavano, quindi, un mutamento di giudizio sulla rilevanza storica della Rivoluzione d’ottobre»? È vero poi che con lo stalinismo l’Urss scelse la via dell’«autoisolamento»? O l’Unione sovietica subì tale isolamento? Dei Quaderni Vacca offre una griglia interpretativa in cui sono giustamente centrali tanto l’anti-Croce quanto le nuove concezioni di Stato e società civile, tanto la «guerra di posizione» quanto il concetto di «riforma intellettuale e morale», tanto la concezione dell’intellettuale quanto il «blocco storico». È però il nesso «rivoluzione passiva»-americanismo a rappresentare la chiave di lettura centrale per comprendere l’ultimo Gramsci, che nel Quaderno 22 giungerebbe a vedere nel capitalismo statunitense e in alcuni suoi possibili sviluppi (l’«economia programmatica») un superamento della stessa esperienza rivoluzionaria. In altre parole, secondo Vacca, Gramsci in carcere giungerebbe ad abbracciare una prospettiva che oggi potremmo definire socialdemocratica. Leggiamo infatti (p. 15 dell’estratto): «Rispetto all’ ”economia di comando” dell’Urss staliniana - è questo il pensiero del Gramsci - l’”economia programmatica” è una forma superiore di economia di piano poiché non sopprime il mercato, ma lo regola politicamente sulla base di un “compromesso” tra le classi fondamentali, e dunque non è coercitiva ma espansiva». Affermazione che, a dire il vero, sembra rispecchiare più la storia del movimento operaio del Novecento che non quanto leggiamo nei Quaderni, dove troviamo - come si è detto - una riformulazione del concetto di rivoluzione, non una sua totale trasfigurazione. In altre parole, quando Gramsci parla di «elementi di economia programmatica» presenti nell'americanismo, non concepisce quest’ultimo come una alternativa positiva al socialismo, ma sottolinea il fatto che - come in tutte le rivoluzioni passive - anche nell'americanismo l’antitesi contiene qualcosa della tesi. Quello che Gramsci dice è che nella lotta tra «socialismo» e «rivoluzione passiva», iniziata nel '17 e destinata ad essere persa dal socialismo se esso non si ripensa (questo è il «programma di ricerca» dei Quaderni), l'americanismo è una forma di rivoluzione passiva comunque più universale ed espansivo del fascismo. Ma non afferma mai che esso sia più «democratico» e «progressivo» del socialismo.
Un’ultima annotazione ancora sulla biografia «politico-familiare» relativa al mondo di Gramsci, nel quale - dice Vacca - i due aspetti si mischiano profondamente fino a essere scarsamente distinguibili. Molto si è scritto, nell’ultimo decennio, a proposito e a sproposito, in relazione al rapporto di Gramsci con la moglie Giulia e con la di lei famiglia. In relazione alle note difficoltà intercorse tra i due coniugi negli anni del carcere, Vacca accenna sia alla «malattia di Iulca», sia a «difficoltà diverse dalla malattia». Ma tali difficoltà non sarebbero tanto connesse, per l’autore, a una presunta «acritica condivisione delle accuse politiche [contro Gramsci] che circolavano negli ambienti del Komintern e del partito russo, quanto dal timore degli Schucht di vedere accresciute le difficoltà che si trovavano ad affrontare nella Russia staliniana a causa dei rapporti politici e di amicizia che li avevano legati a Lenin». Che sembra altra cosa dalla tesi scellerata di chi ha voluto vedere ora in Giulia, ora in Eugenia, ora in Tania, altrettanti «agenti del Kgb» incaricati di sorvegliare Gramsci o, alternativamente, vittime insieme a Gramsci della sorveglianza dei servizi russi, incarnatisi in questo o quel famigliare. Non solo: Vacca giustamente sottolinea - a conclusione di questo quadro - come nella minuta (manoscritta da Sraffa) della domanda al governo del 18 aprile 1937, dieci giorni prima della morte, Gramsci chiedesse alle autorità italiane, una volta libero, di poter espatriare in Unione sovietica. Dove era Giulia, dove erano i suoi figli. Dove erano anche - come si fa a dimenticarlo? - Stalin, Togliatti e il centro direttivo di quel movimento comunista che evidentemente egli riteneva ancora essere, nonostante tutto, nonostante i dissensi, i conflitti, i torti anche subiti, la sua parte. «Wrong or right, my party», verrebbe da dire ricordando Lukàcs, un altro grande «comunista eretico» del Novecento.